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martedì 27 novembre 2012

Una città alla deriva, prendiamo esempio da Taranto

Oggi a Taranto gli operai hanno occupato l'Ilva, quel mostro produttore di acciaio e tumori che, in nome dell'ideologia lavorista dominante nel secolo scorso, ha avvelenato per anni una delle terre più belle del mezzogiorno, inquinando lo Ionio, distruggendo ogni speranza di diversificazione produttiva e rendendo il rione Tamburi (quello dove è ambientato "Io speriamo che me la cavo", per intenderci) il luogo più invivibile del paese, dove il cielo perennemente grigio rimanda a panorami molto diversi dalla paradisiaca costa pugliese.
La città di Taranto ha dovuto sostenere negli anni lo straziante ricatto occupazionale tipico delle terre dove il lavoro non esiste, sostituito dalle mille forme atipiche che già erano sperimentate ben prima che i vari Treu, D'Antona e Biagi vi mettessero mano, tenendosi stretta l'ex Italsider e tutto il carico di morti negli altiforni, impatto ambientale ed alienazione che ne ha costellato l'attività. Tutto questo sotto l'occhio benevolo di potentati locali e sindacati, che hanno sventolato per anni lo spauracchio della nostra Bagnoli, dove la chiusura dell'Italsider negli anni '80 (smontata e rivenduta pezzo per pezzo alla rampante industria cinese) ha portato a più di un ventennio di promesse di bonifica, riqualificazione e rilancio turistico, su cui il popolo partenopeo oramai scherza, con un sorriso amaro e la rabbia agli occhi. Ci è voluto un giudice a Taranto per chiudere quella maledettissima fabbrica, ci sono voluti anni di morti, di ragazzini nati deformi e di carcinomi polmonari per far arrabbiare la gente, ma soprattutto a dare il colpo finale sono stati padronato e sindacati, che finalmente dopo decenni di finta lotta, hanno mostrato il vero volto della concertazione del nuovo millennio. Così in poco tempo padron Riva ha orchestrato scioperi contro la chiusura dell'impianto impiegando i capi-reparto nel reclutamento di operai da portare in piazza, mentre il trio delle meraviglie Angeletti-Bonanni-Camusso scendeva in Puglia per sproloquiare dai soliti palchi i soliti discorsi, dietro il folle slogan "IL LAVORO PRIMA DI TUTTO". In quella piazza ha fatto irruzione una delegazione di operai e singoli cittadini, dietro ad un apecar con un'amplificazione messa sù alla buona, per impedire che, oltre al danno si aggiungesse la beffa di dover sentire ore di banalità e slogan, urlati dagli autori materiali della distruzione del territorio tarantino. Quelle persone (colpite nei giorni seguenti da numerose denunce dai colletti bianchi sindacali) hanno dato un segnale forte lo scorso 2 agosto, per poi riunirsi sotto il nome di "Comitato di lavoratori e cittadini liberi e pensanti", rilanciando una mobilitazione continua, autonoma e libera dai condizionamenti politico/sindacali/mafiosi del territorio. Una sperimentazione che è arrivata con forza nelle piazze, fino a varcare i cancelli dell'Ilva, non per timbrare il cartellino, ma per occupare gli stabilimenti. A Torre del Greco la situazione non è estremamente diversa da Taranto, ma ancora oggi vediamo come tutte le più o meno grandi mobilitazioni cittadine (dalle lotte dei marittimi in crisi, a quelle dei risparmiatori truffati dalla Deiulemar, per la salvezza dell'ospedale Maresca fino ai movimenti studenteschi) abbiano una regia, la solita, che non ha vergogna di uscire allo scoperto, dopo aver fiancheggiato per anni quelle istituzioni che adesso tentano di avversare. A Taranto ce ne hanno messo di tempo prima di mandarli a quel paese, ma finalmente è successo e questo è un primo passo verso una rivoluzione che voglia essere soprattutto culturale e che affondi le proprie radici nella mentalità della gente del Sud, troppo abituata a ringraziare per ottenere ciò che gli spetta e ad elemosinare dei diritti. Da Taranto parte il riscatto del Meridione, a Torre del Greco bisogna iniziare a costruirlo, senza paura e con la forza dei contenuti e dell'amore per la propria terra.

REDDITO PER TUTTI VOTO PER NESSUNO